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giovedì 24 dicembre 2015

I 5 BUONI MOTIVI PER AMARE QUESTO NATALE (O RENDERLO ALMENO SOPPORTABILE)


1.      L’embargo totale dei vari “Pomeriggio 5”, “Quarto Grado”, “Chi l’ha visto?”, “La vita in diretta”, con il racconto quotidiano dei dettagli più efferati di omicidi e casi di cronaca nera vari.
L’unico strappo alla regola è concesso per la cotonatissima e austera Franca Leosini: nostra Signora catodica dei serial killer!




2.      Scartare i regali pensando a chi (e in quale occasione) riciclare i peggiori doni ricevuti.
Il “riciclo” del regalo sgradito è un’arte che salverà il pianeta. Si consiglia delicatezza nell’apertura, in modo da poter riutilizzare anche l’incarto.




3.      Rimpinguare le finanze grazie alle donazioni dei parenti per poi dilapidare tutto in sessioni sfrenate di shopping.
L’ansia da “cosa gli/le regalo?” si supera solo autofacendosi dei regali…e al primo giorno di saldi, scatenate l’inferno!




4.      La maratona di “Fantaghirò” su Mediaset Extra.
Poter trascorrere i giorni di festa con le perle di cattiveria pura della Strega Nera e urlare in preda ai fumi dell’alcool “TARABAAAS”: il regalo più bello!



5.      Ingozzarsi di cibo ipercalorico come non ci fosse un domani.
In questi giorni il tasso glicemico e il colesterolo perdono di significato, le palestre chiudono e la dieta si riprende a gennaio con l’anno nuovo (sì, certo…).



martedì 10 novembre 2015

MARCO MARSULLO E I FIGLI CHE NON HANNO GENITORI

I miei genitori non hanno figli (Einaudi Stile Libero) è il nuovo romanzo di Marco Marsullo e il pretesto per parlare di questo giovane autore nel nostro scalcinato blog. 
Se hai 30 anni e pubblichi il tuo terzo romanzo è più giusto che si parli di te rispetto al musicista agli esordi che mi rimanda già al suo ufficio stampa, neanche avesse vinto svariati Grammy o realizzato l’album del secolo. Poi ho adorato il personaggio di Vanni Cascione, protagonista del suo romanzo d’esordio Atletico Minaccia Footbal Club, allenatore di provincia che sogna di diventare José Mourinho, tra campetti disastrati, calciatori improvvisati e storie di malavita ai limiti del grottesco: secondo motivo per dedicargli un post trovato! Il terzo motivo per cui scrivere di lui è un racconto sulle palline, nato in occasione della rassegna “Scritti in vetrina” (Libreria Icaro, Lecce), in cui gli autori si espongono al pubblico ed espongono l’intimo processo di creazione delle loro opere, mettendosi in vetrina appunto: surreale la situazione, più che surreale il racconto!
Come sempre quindi invio la mia e-mail di presentazione, le domande che vorrei porre e poi attendo risposte. Il più delle volte l’attesa è vana, ma non è questo il caso: quarto motivo di questo post, il più importante!





È uscito da poco il tuo nuovo romanzo “I miei genitori non hanno figli”, in cui racconti quanto è difficile avere diciotto anni oggi. I genitori che descrivi sono tutto tranne che un punto di riferimento stabile, mentre i figli sembrano molto distanti dagli “sdraiati” protagonisti dell’omonimo romanzo di Michele Serra. Trovi giusto definire il tuo romanzo “generazionale”? E cosa c’è del tuo passato di diciottenne nella storia che racconti?

In realtà non la trovo la definizione adatta, almeno nelle intenzioni. Volevo scrivere un libro che fosse di analisi per quello che riguarda la difficoltà di comunicazione che c’è tra genitori e figli, non un manifesto in difesa di una generazione piuttosto che di un’altra. Come scrittore mi interessano i conflitti non banali, quelli banali si raccontano da soli. Volevo dare voce a un ragazzo di diciotto anni che raccontasse perché, a volte, si è trovato “sdraiato”, per prendere in prestito il termine dal bel libro di Michele Serra. Del mio passato c’è qualcosa, molto in alcuni tratti, poco in altri. Ma non è così importante, infondo. Questa è una storia di ogni ragazzo e ogni genitore abbia trovato difficoltà a gestire l’amore enorme che c’è dietro l’essere figlio o padre.


Hai trovato il successo con “Atletico Minaccia Football Club”, una storia di calcio di provincia, tra campetti disastrati e boss di quartiere. Il mister Vanni Cascione, che sogna di diventare José Mourinho, è una figura epica e grottesca al tempo stesso. La passione per il calcio può ancora essere coltivata in un’epoca di scandali come quello che ha travolto la Fifa di recente? E pensi un giorno mister Cascione arriverà ad allenare il Real Madrid?

La passione per il calcio esula da chi il calcio lo infanga. Il calcio non è quello della Fifa, il calcio sono gli spalti pieni di tifosi, le domeniche passate a soffrire, le piazze dove i bambini giocano senza regole e senza orari. Cascione il Real non lo allenerà mai perché sarebbe lui a rifiutarlo, quei calciatori si allenano da soli, lui vuole una sfida vera.


Ci siamo occupati diverse volte di giovani scrittori “under 35”. Tu stesso hai trent’anni e una carriera da scrittore ed editorialista ben avviata. Qual è il consiglio che senti di dare ai tuoi coetanei e colleghi che invece lottano quotidianamente con il precariato?

Posso consigliare qualcosa ma non ponendomi come anti-precario. Precari lo siamo tutti; voglio dire, è una condizione lavorativa comunissima per chi fa il mio mestiere. Scrivere è sempre precario, altrimenti non sarebbe il lavoro bello che è. Quello che posso consigliare è di non accettare compromessi per troppo tempo, soprattutto la mancata retribuzione. È avvilente lavorare, anche scrivendo, e non essere pagati. Inaccettabile. Altro consiglio, per chi vuole scrivere romanzi, che è il mio vero mestiere, è quello di non mollare. Scrivere, sempre, finché si ha voglia di farlo. Se c’è qualcosa di buono dentro da raccontare, prima o poi esce, al cento per cento.


Durante la presentazione del tuo nuovo romanzo, hai dedicato un racconto alla tua “pallina”. Per uno scrittore meglio un amore sereno e duraturo o maledetto e ricco di complicazioni, da riversare poi su carta?

Sarò atipico, come scrittore, non lo so, ma io preferisco un amore sereno, onesto, pieno di verità, a mille giri contorti tra le fiamme dello struggimento. L’inferno ce l’ho già dentro, tutti i giorni, quando mi siedo davanti al computer. Almeno fuori, voglio godermi una discesa piena di fresco.


Un’ultima domanda: secondo te (e sii onesto) “Vita da KreTine” è un bel nome per un blog che parla anche di letteratura e non solo di storie di povere “sgarrupate” come noi?


È un nome pazzesco. Vorrei averlo pensato io. Complimenti, vivissimi.

martedì 27 ottobre 2015

FRISINO, L'AMORE E IL SUO "TROPICO DEI ROMANTICI"

Pugliese, ma romano d’adozione. Inserito dal portale Rockit tra i dieci nuovi cantautori italiani da tenere d'occhio. Il suo primo album Tropico dei romantici (Volcan Records) è un trattato sull’amore e sulle mille sfaccettature di un sentimento che si evolve nel tempo, cambia volto e cambia le persone: malinconico in Non deve finire, quasi cattivo in Dimmi che vuoi, ormai finito in Lontanissimo.
Personalmente, ho sempre provato un sentimento contrastante verso il cantautorato italiano, figlio spesso di una borghesia annoiata, più che di una rivoluzionaria voglia di cambiare il mondo attraverso le parole in musica. Alla soglia dei trent’anni, mentre  riscoprivo la bellezza gentile dei versi di Lauzi, Bindi, Tenco, ho imparato ad apprezzare chi osa scrivere e cantare d’amore, da cui l’interesse per questo giovane cantautore, “antico” nel senso buono del termine, ma attuale come il sentimento che racconta. Parliamo di lui, di Frisino, che abbiamo intervistato per farci raccontare del suo album d’esordio, dell’amore per la musica e dell’amore in generale.





Tropico dei romantici è il tuo disco di esordio. Secondo il portale Rockit.it sei tra i dieci nuovi cantautori italiani da tenere d’occhio e la critica ha accolto positivamente il tuo lavoro. Un ottimo inizio per un’opera prima: cosa ne pensi? E il pubblico come sta accogliendo il tuo album?

Sono sincero se ti dico che non mi aspettavo proprio di finire tra i dieci cantautori scelti da Rockit! Sono rimasto sorpreso quando l’ho letto ed ho ricevuto una serie di domande e di richieste, che son continuate anche con le due presentazioni che ho fatto insieme al resto della band sia a Milano all’Arci Ohibò che a Roma a Na Cosetta.
Ogni giorno cresce l’interesse intorno al progetto e ci sono tante cose da fare e ne sono davvero contento: anche se è dura, è questo quello che vorrei fare sempre!


Il tema dominante del tuo disco è l’amore, non solo quello struggente, ma anche quello felice e ricambiato. Una scelta in contrasto con lo stereotipo del cantautore “sofferente”. L’amore che canti è frutto di esperienze di vita? E il fatto di essere un bel ragazzo ti ha aiutato ad essere meno “sofferente” in amore?

L’amore è al centro di tutto e non finirà mai di essere scavato, sviscerato, indagato, resterà sempre. L’aspetto fisico qui conta poco, quando si soffre puoi essere anche un Adone, ma stai male come un cane e niente e nessuno, se non il ritorno della persona amata ti possono consolare. L’aspetto fisico non conta nulla se non ci sai fare con le persone. Per me è tutta una questione di empatia, se scatta quella possiamo fare tutto. Lo stesso impeto lo riverso nelle canzoni, che parlano d’amore si, perché l’amore ci salva sempre da tutto. In questo disco ho voluto scrivere d’amore perché mi viene facile e perché mi sento vicino a molti cantautori del passato.


Le storie che racconti nelle tue canzoni sono ambientate in giro per l’Italia, da Milano a Lecce. Un po’ come la tua vita, in giro per lo stivale. Cosa ti manca di più del Sud che hai lasciato? E pensi un giorno di tornarci in pianta stabile?

Mi mancano i colori, gli odori, il mare e le persone che amo. Ma quando posso scappo sempre in Puglia per rigenerarmi, spero un giorno di poterci tornare, anche se quando vivi in una grande città ti abitui anche se non vuoi ad una serie di ritmi che diventano tuoi e il contrasto con la lentezza con cui si svolge la vita giù da noi è forte. Vedremo.


Il cantautorato in Italia ha una lunga tradizione. Guardando al passato, a chi ti ispiri maggiormente? E ci sono invece giovani artisti che ti hanno influenzato e vorresti consigliarne l’ascolto?

Ti faccio due nomi che racchiudono un po’ tutti i miei ascolti: Paolo Conte e Luigi Tenco. In mezzo a loro passano tutti i cantautori che ci sono stati in Italia e che mi hanno segnato in una fase o in un periodo storico particolare.  Come si fa a non amare Lauzi? O a cantare a squarciagola “il nostro concerto” di Bindi?  Ecco ai vostri lettori consiglio questi due per cominciare.


Immagina che il disco registri un enorme successo di pubblico: svesti i panni del cantautore “raffinato” per dedicarti al mainstream o continui nella tua ricerca personale e musicale, anche a scapito dei risultati raggiunti?


Resto la persona che sono. Non mi sento raffinato, anzi il mio è un approccio più pasoliniano, perché ho tanto da imparare e da conoscere. Questo disco non l’ho registrato per fare successo, l’ho fatto perchè era un’esigenza che mi sono portato dietro per anni e alla fine grazie all’incontro con il produttore Antonio Filippelli l’ho portato a compimento. Una cosa mi auspico: quella di iniziare a fare tanti concerti sia da solo che con la band e riuscire così a portare la mia musica in giro il più possibile.



mercoledì 21 ottobre 2015

L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DI UN CAPODANNO NEOMELODICO

Ebbene sì, la profezia dei Maya sulla fine del mondo era vera!
Quei mattacchioni che altro non sono dei Maya, avevano solo toppato la data e il luogo da cui l’Apocalisse sarebbe partita per giocare uno scherzone all’umanità intera. La data esatta della fine del mondo è il 31 dicembre 2015 e tutto avrà inizio dalla città di Lecce.

Stando agli studi condotti dal grande astronomo peruviano Quittelammolla, noto per la sua propensione a predire catastrofi poi realmente verificatesi (lo scioglimento dei Take That, la fine di Beverly Hills 90210 e il successo di Antonella Clerici), un enorme cratere si aprirà allo scoccare della mezzanotte nella città salentina, al risuonare delle note di “Miele” (che poi diventa sale, se siamo in riva al mare) e inghiottirà l’umanità intera.
In una grotta nei pressi di Quito, è stato di recente ritrovato un antico pittogramma che ritrae un uomo pelato dai tratti tipicamente partenopei, accompagnato da una donna dai lunghi capelli neri e il trucco pesante, con nelle mani un oggetto che parrebbe essere un microfono. Di fronte a loro una folla festante, con abiti di dubbio gusto. La scena si svolge in una piazza sovrastata da un obelisco, sulla cui sommità è posizionata la statua di un uomo barbuto dallo strano cappello (il folletto Memole?). Da una serie di riscontri effettuati dai Centri dimagranti Sorbino, noti per la precisione certosina nell’effettuare riscontri su antichi pittogrammi Maya, la città rappresentata da Quittelammolla sarebbe proprio Lecce e l’uomo pelato dai tratti partenopei Gigi D’Alessio. Gli unici dubbi riguardano l’identità della donna dal trucco pesante, i cui tratti sarebbero riconducibili a diversi soggetti.
Gli studiosi hanno elaborato due teorie per spiegare la profezia:

1.      in seguito alla visita nella città da parte di tale Alberto Angela e del proliferare su Facebook di post sulle bellezze “te lu SALENTU”, Mark Zuckerberg avrebbe speso una parte del suo ingente patrimonio per convincere il noto neomelodico a scegliere il capoluogo salentino come sede del suo concerto di Capodanno, esclamando la celebre frase “AND NOW, THESE ARE YOUR COCKS”, difficilmente traducibile in italiano. Il già fragile ecosistema locale non avrebbe quindi retto agli acuti malriusciti, da cui l’Apocalisse;

2.      nel 1998 la città di Matera decise di investire tutti i fondi destinati alla costruzione della sua prima stazione ferroviaria in dischi di un esordiente cantante napoletano, che schizzò quindi in cima alle classifiche nazionali con grande sorpresa di tutti. In futuro, avrebbero utilizzato il partenopeo come arma di distruzione di massa contro i nemici. Come la Corea del Nord lancerebbe volentieri i suoi missili nucleari contro gli odiati cugini del Sud, così Matera avrebbe quindi scagliato Gigi D’Alessio contro i nemici leccesi, colpevoli di sfottò continui sulle sue “petre” in occasione della candidatura di entrambe le città a “Capitale europea della cultura”. I materani non sapevano però che il cratere creatosi in quel di Lecce avrebbe inghiottito anche loro e il genere umano tutto.


Data l’elevata attendibilità della profezia Maya e la certezza della presenza del noto neomelodico, si consiglia vivamente di eliminare la città di Lecce come luogo in cui festeggiare con allegria il proprio Capodanno: meglio il trenino con “A, E, I, O , U…IPSILON” di Pescasseroli!



mercoledì 14 ottobre 2015

LA MALEDIZIONE DELLA NOTA VOCALE

Più fastidiose degli squilli, di cui rappresentano l’indegna evoluzione. Simpatiche come un riccio dagli aculei ritti infilato nelle mutande durante l’ora di crossfit. Generalmente hanno un’utilità prossima allo zero, pari a quella delle riflessioni sui grandi temi di attualità di Flavia Vento (l’egittologa) su Twitter. Oggi parliamo di loro: le note vocali!
Se Mosé avesse tentato la fuga dall’Egitto oggi, Dio le avrebbe inserite tra le dieci piaghe al posto delle ulcere su umani e animali: cosa sono delle “simpatiche” piaghe sul corpo in confronto a minuti interminabili di monologhi basati sul nulla?
Leggenda vuole che le noti vocali siano una creazione del demonio: invocato per sbaglio da Paolo Brosio durante la scrittura di uno dei suoi libri su Medjugorie per dare un tocco di pepe al racconto, punì il genere umano tutto con la maledizione dei messaggi vocali registrati!
La verità è che quando riceviamo una nota vocale, magari in risposta a una semplice domanda tipo “cosa mangi?” o “sta piovendo?”, il pensiero comune è sempre lo stesso: “perché a me? PERCHÉ?”.

Tra la miriade di note vocali che riceviamo quotidianamente, tre sono quelle che più odiamo:

1.      la nota vocale fiume, (durata minima stimata 5 minuti), ovvero un monologo in cui non è prevista alcuna possibilità di risposta, ad accezione di un “ok”, spesso rappresentato con l’iconico pollice ritto. La verità è che nessuno ascolta note vocali che superano i 30 secondi, al massimo si ascoltano a tratti e mentre si fanno attività a cui si presta maggiore attenzione. Quasi sempre la nota vocale fiume non viene nemmeno scaricata e si cerca di coglierne il contenuto chiedendo informazioni alle persone che hanno avuto il coraggio di ascoltarle. Per chi è solito inviare note vocali di tale durata, il consiglio è solo uno e si riassume in una sola parola: SINTESI!!!

2.      la nota vocale interrotta, (durata media 1 minuto), è quella che vorresti tanto ascoltare, perché si presuppone sia pregna di significati e di contenuti a cui sei realmente interessato, ma nel momento clou si interrompe, lasciandoti quella sensazione di amarezza che provi soltanto quando una puntata della tua serie preferita si conclude con “il tuo vero padre è…TITOLI DI CODA!”. In genere l’interruzione è dovuta ad un incauto utilizzo dello smartphone, al pollice che scivola via o all’entrata di orecchie sgradite nella stanza in cui si sta registrando. Il consiglio in questo caso è uno soltanto: come durante un rapporto sessuale, cercate di concludere! 

3.      la nota vocale musicale, (durata media 3 minuti), consiste nell’invio di una canzone, romantica per l’innamorato/a, demenziale o trash per le amiche KreTine. Nell’universo dei messaggi vocali, sono le meno fastidiose. Il problema è che spesso sono accompagnate da quel simpatico fruscio di sottofondo che rende impossibile capire se trattasi di un capolavoro dei Beatles o dell’ultima hit stracciapalle di Alessandra Amoroso. Se volete dedicare una canzone, evitate quindi di registrarla live, ma scaricatene il file e inviatelo: solo così il senso della nota verrà recepito correttamente dal destinatario!


Fiume, interrotta o musicale che sia, non fa alcuna distinzione per me: le odio tutte indistintamente! Piuttosto l’ascolto dell’intera messa trasmessa su Rai Uno la domenica mattina, con emicrania da postumi del sabato sera, ma alle note vocali (come ai grassi e ai colpi di sole) dico NO!     



lunedì 7 settembre 2015

UN’ESTATE DI ME…

Quando tutto quello che avevi sognato di fare durante la stagione estiva non si realizza neanche in minima parte e i tuoi buoni propositi di maggio diventano delle tristi riflessioni settembrine, allora anche tu hai trascorso “un’estate di ME…”.
Riconoscere “un’estate di ME…” è semplice, bastano pochi indizi o semplicemente elencare le nefandezze accumulate nei giorni più caldi dell’anno.

UN’ESTATE DI ME… è quando non vedi l’ora di partecipare ai festival musicali più fighi d’Italia e d’Europa, quelli che ospitano sui loro palchi le grandi stelle della musica mondiale, dai Muse al Rock in Roma a Lady Gaga e Tony Bennett all’Umbria Jazz, da sua bombastica maestà Nicki Minaj all’Estathé Market Sound, fino alla divina Lauryn Hill al Lucca Summer Festival...e poi lo Sziget di Budapest, il Flow Festival di Lubiana, il Positivus Festival di Salacgriva, sulla costa nord della Lettonia…mentre tu ti ritrovi al concerto di Orietta Berti a CAPRARICA DI TRICASE, tra arzille settantenni che ti invitano a farti da parte perché intralci loro la visuale.

UN’ESTATE DI ME… è quando vorresti investire i soldi messi da parte nei precedenti mesi di lavoro nel tuo viaggio dei sogni…due settimane nell’isola del Mediterraneo, dove l’unica preoccupazione è ricordarsi di spalmare la crema solare ogni due ore, tra fiumi di mojito ghiacciato e aitanti manzi in attillati costumini fluo (che nulla lasciano all’immaginazione)…poi scopri di dover pagare tasse di cui ignoravi l’esistenza, tipo sulle unghie dei piedi troppo lunghe, e allora non ti resta che dimenticare l’isola e andarti a sciacquettare nelle fresche acque della spiaggia cittadina, tra la famiglia barese che abbandona le bucce di melone perché “tanto sono biodegradabili” e i signori di mezza età con la pancia alcolica, che in comune coi manzi hanno solo il costumino fluo attillato che nulla lascia all’immaginazione, causandoti un impellente desiderio di vomitare anche l’anima.




UN’ESTATE DI ME… è quando con i tuoi amici progetti serate all’insegna del divertimento sfrenato, non c’è serata che potrete perdervi ed è tutto un “andremo lì…e lì…e poi anche lì…”, per la tua gioia…ma nella realtà, se si riesce a fare una serata a settimana è pure tanto, perché c’è l’amico “sono troppo stanco dopo il mare” e l’amica “non vengo perché potrei incontrare il mio ex”…e tu vorresti far provare all’amico la stanchezza del lavoro in una miniera siberiana e all’amica far capire che l’ex non la considerava neanche quando stavano insieme e lui si faceva anche i buchi nei muri.

UN’ESTATE DI ME… è quando ovunque ti perseguitano Marie Salvador…si susseguono i servizi di Studio Aperto sull’allarme caldo…i giornali sono pieni di selfie vip nelle più belle località estive…devi lavorare mentre il resto del mondo si diverte…punti gli affascinanti turisti provenienti dal Nord Europa, immaginando ore di sesso selvaggio in una lussuosa camera d’albergo, e ti ritrovi a "fare all’amore" in una squallida pineta con il solito grezzoncello autoctono, tra formiche e zanzare che ti causano gli unici spasmi degni di nota.


Se anche voi avete vissuto UN’ESTATE DI ME… è arrivato il momento di gioire: è tutto finito (DEO GRATIAS)!!!



venerdì 17 luglio 2015

PERCHÉ GUARDARE I FILM DI WES ANDERSON FA BENE?

Se cercate un mondo privo di cattiveria e malizia, in cui ogni azione è compiuta in maniera innocente e mai volutamente per fare del male agli altri, abitato da personaggi naïf e vagamente nostalgici, con un senso dell’umorismo non accessibile a tutti, allora avete il dovere morale di guardare un film di Wes Anderson. Se siete hipster, o comunque pensate di esserlo, e vi piace la musica indie, forse l’avrete già fatto e ve ne sarete sicuramente innamorati.

Perché guardare i film di Wes Anderson fa bene? La risposta può essere riassunta con la descrizione di una scena. Suzy chiede a Sam un french kiss a conclusione del loro viaggio in Moonrise Kingdom, lui risponde con un “Let’s try” dopo aver improvvisato un goffo balletto sulle note di Le temps de l’amour di Françoise Hardy: musica proveniente da un giradischi a pile che la piccola Suzy ha portato con sé fuggendo di casa, insieme al suo gatto e ai suoi libri preferiti.




Ne I Tenembaum, un’eterea Gwyneth Paltrow interpreta il ruolo di Margot, figlia adottiva dell’avvocato Royal Tenembaum (un iconico Gene Hackman), che decide dopo anni di riunire la sua famiglia, fingendosi affetto da un cancro allo stomaco. Per tutta la durata del film, Margot fuma sigarette di marca Sweet Afton, in commercio solo in Irlanda: un oggetto feticcio, come il giradischi a pile di Suzy. Oggetto dell’amore segreto del fratellastro Richie, che tenterà il suicidio per l’impossibilità di coltivare questo sentimento, è affetta da una depressione cronica, che le ha impedito di coltivare il suo talento di drammaturga, confinandola in un triste matrimonio. I Tenembaum sono un elogio alla figura dell’inetto, del talento sprecato, del tempo perso dietro passioni stucchevoli: solo l’amore porta sollievo, anche se vissuto segretamente, come decideranno di fare Margot e Richie alla fine del film.




Riunire la famiglia è anche il motivo dominante de Il treno per il Darjeeling, in cui tre fratelli, un anno dopo la morte del padre, cercano di ricostruire il loro rapporto organizzando un viaggio in treno in India, per raggiungere il santuario dove anni prima aveva deciso di ritirarsi la madre. Tra i tre fratelli, il più piccolo, Jack (Jason Schwartzman), non riesce a dimenticare la sua ex ragazza, che ha lasciato a Parigi, e passa il tempo a riascoltare di nascosto la sua segreteria telefonica, di cui conserva ancora il codice segreto. Il viaggio dei fratelli si conclude sulle note di Les Champs Élysées di Joe Dessin.




Dell’esplosione di colori di Grand Budapest Hotel non mi è rimasto granché: sicuramente un piacere per gli occhi, ma della tensione emotiva dei precedenti lavori molto si è perso, ad eccezione della Madame Céline Villeneuve Desgoffe und Taxis (Madame D.) interpretata da Tilda Swinton.




Le storie di personaggi naïf, persi nei loro pensieri, bloccati dalla paura, dall’ansia, da sentimenti repressi, incapaci di aprirsi al mondo e che comunicano solo nella ristretta cerchia di affetti che li circondano, ricorrendo al viaggio come via di fuga ad una realtà che li opprime: è questo il motivo per cui guardare un film di Wes Anderson,  perché aiuta a ritrovare sé stessi nelle storie degli altri.

martedì 14 luglio 2015

MARCELLO CESENA E IL BARONETTO JEAN CLAUDE

Tutti ricordano il personaggio del baronetto Jean Claude in Sensualità a corte: i suoi litigi con Madre, finiti quasi sempre in tragedia; gli amori tormentati coi vari Renato (Batman), Stefano (Dart Fener), Armando (Diabolik), Titti (Robin Hood) e Diana (Wonder Woman); il rapporto complicato con la moglie Cassandra, che tenterà più volte di trasformare il baronetto in un campione di virilità, con risultati a dir poco scarsi. Un simpatico inetto di fine Settecento,  insomma.
Curiose di sapere le sorti dell’amato baronetto, le KreTine hanno deciso di intervistare l’attore e regista Marcello Cesena: dal suo passato coi Bronkoviz, alle esperienze come  regista con Diego Abatantuono in Mari del Sud e Aldo, Giovanni e Giacomo in Il cosmo sul comò. Un dilemma su tutti: riuscirà Jean Claude a coronare il suo sogno d’amore?  





Il personaggio di Jean Claude in Sensualità a corte ti ha reso celebre al pubblico più giovane. Le KreTine più attempate ti conoscevano e apprezzavano già ai tempi dei Bronkoviz, compagnia fondata con Maurizio Crozza, Carla Signoris, Ugo Dighero e Mauro Pirovano. Cosa pensi della comicità italiana di oggi, sempre più lontana dal teatro, dal cinema e dalla stessa tv e concentrata sempre più sul web?

Oramai, lo confesso, seguo più la comicità sul web che quella televisiva. Diciamo che la scomparsa dalla TV di gran parte dei programmi comici “storici” mi ha aiutato molto in questo. Trovo che il web sia un palcoscenico implacabile, perché quando guardi, per dire, una web-serie, sei solo e concentrato molto più che davanti alla TV. Quindi se la noia serpeggia, lo capisci subito.


Hai studiato alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova e debuttato in teatro accanto Giorgio Albertazzi nell’Enrico IV di Pirandello. Secondo te esiste una ricetta per riportare il pubblico più giovane al teatro?

La ricetta è puntare in maniera decisa ad un pubblico giovane. Mentre il teatro, come la televisione generalista d'altronde, ha continuato a puntare al pubblico degli abbonati, cioè ad un pubblica via via sempre più anziano, proponendo cose il più delle volte vecchie e brutte.


Come regista cinematografico hai diretto Diego Abatantuono in Mari del Sud (2001) e Aldo, Giovanni e Giacomo in Il cosmo sul comò (2008). Per un attore comico è complicato rapportarsi sul set a colleghi nel ruolo di regista? E ti vedremo presto a dirigere un nuovo film?

Per me è stato molto naturale il passaggio alla regia. In fondo, da regista e attore, io e gli attori dei miei film parliamo la stessa lingua e ci capiamo al volo. Spero di girare presto un nuovo film.


Hai diretto alcune tra le più note campagne pubblicitarie degli ultimi anni, con testimonial come Gigi Proietti, Fiorello, Luciana Littizzetto, Paola Cortellesi, Claudio Bisio e tanti altri. Hai mai ricevuto critiche da quegli ambienti radical chic che guardano spesso con disprezzo a tutto ciò che è “commerciale”? E come hai risposto nel caso?

Da moltissimo tempo, la pubblicità è considerata un linguaggio trainante per molte altre forme espressive. Di conseguenza, non esiste più alcuno snobismo in questo senso, anzi.


Per concludere, il “grande perché delle KreTine”: perché in Sensualità a corte il povero Jean Claude non giunge mai a coronare il suo sogno d’amore con un bel fustacchione, in pieno stile telenovela sudamericana (pensiamo al rimpianto Edoardo Palomo in Cuore Selvaggio)?


Jean Claude non coronerà mai il suo sogno d’amore, esattamente come Silvestro non mangerà mai Titti: è la loro natura!

venerdì 10 luglio 2015

90’s K-MEMORIES: TAKE THAT

Se nella prima metà degli anni ’90 vi è capitato di assistere a scene di delirio collettivo, con ragazzine urlanti e piangenti ad occupare le strade e a presidiare l’ingresso di alberghi romani o milanesi, sappiate che la causa di tali fenomeni paranormali erano loro: i Take That. Il gruppo, nato nel 1990 nella ridente cittadina di Manchester, ha sconvolto le vite (e gli equilibri ormonali) di milioni di teenager italiane ed è stato causa di picchi di omosessualità rilevanti nella popolazione maschile che ha vissuto la sua adolescenza in quegli anni. Basti pensare al video di Pray, in cui i cinque ragazzi adornano mezzi nudi uno scenario da favola e ogni tanto vengono travolti da getti d’acqua o si rotolano nella sabbia, panandosi come delle cotolette.




Come nella migliore tradizione popparola, ogni ragazza aveva il suo Take That preferito, quello che ad ogni sua apparizione provocava pianti e scenate isteriche, la cui icona (poster gigante a grandezza naturale) andava gelosamente custodita in camera. Dei cinque componenti originari, i più apprezzati erano due: Robbie Williams, causa del primo scioglimento della band dopo la sua prematura uscita dal gruppo nel 1995, che incarnava lo stereotipo del “bad boy” alla Dylan di Beverly Hills, ma con un tocco di follia in più; Mark Owen, che incarnava invece lo stereotipo del bravo ragazzo, viso angelico, capello biondo e aria da fidanzatino che piace tanto alle mamme. Tra i due opposti, Gary Barlow, autore della maggior parte dei testi della band, Howard Donald e Jason Orange, dei quali non ricordo le doti, ma uno dei due aveva i dread forse.
I Take That sono come i gatti: hanno avuto diverse vite, ma dopo vari scioglimenti e reunion sono tutt’ora attivi musicalmente. Quelli che ci interessano maggiormente sono quelli attivi tra il 1990 e il 1995, degli album Everything Changes e Nobody Else e di singoli che hanno accompagnato i nostri sculettamenti di quegli anni (Relight my fire e Sure su tutti). Chi non ha scritto sul diario struggenti lettere d’amore con alle orecchie le cuffiette del walkman e le tristi note di Back for good?




L’Italia fu sconvolta da questo fenomeno come non lo era stata dai tempi dei Duran Duran. Ricordo un Sanremo con Pippo Baudo intento a frenare i bollori delle ragazzine presenti nella platea dell’Ariston. Soprattutto non dimenticherò mai una puntata di Non è la Rai in cui erano ospiti e le ragazze erano più scatenate del solito, tipo cavalle drogate prima di una corsa! Quando nel 1995 Robbie Williams decise di lasciare il gruppo, per un’intera generazione il cuore cessò di battere per un istante: non era infarto, ma la consapevolezza che stava finendo un’epoca, quella della spensieratezza, degli amori da diario e della musica dai walkman. I quarantenni che girano oggi per l’Europa non fanno che accrescere quel senso di vuoto e di nostalgia in milioni di ex teenager made in ‘90s: meglio ricordare il passato, quello dei goderecci anni ’90, piuttosto che affogare nel triste presente!

martedì 7 luglio 2015

LA "REVOLUCIÒN DEL'AMOR" DEGLI ESPAÑA CIRCO ESTE

L’anno scorso abbiamo assistito al live degli España Circo Este, con la convinzione di ascoltare un gruppo di ragazzi spagnoli. Con tale convinzione, a fine concerto improvvisiamo uno spagnolo maccheronico per avvicinarli, da buone KreTine d’assalto, e dopo un fugace scambio di battute ci accorgiamo che sono Italiani e fingono soltanto di essere Spagnoli: KreTine gabbate, KreTine sfortunate! A un anno di distanza, è uscito il loro primo album,  La Revoluciòn del’Amor, che porta avanti la rivoluzione “tango-punk” di Circo Este Ciudad e Bucatesta, i precedenti EP del gruppo. Nel frattempo, questi “millantatori” hanno calcato alcuni dei palchi più importanti d’Italia e d’Europa e aperto i concerti di artisti come Manu Chao e Gogol Bordello.

Solo per il fatto di averci ingannato meriterebbero un post di critiche negative (tipo “la loro musica ricorda i migliori scarichi dei bagni chimici di un festival estivo”), ma le KreTine sono obiettive e tendenzialmente buone, quindi l’intervista che segue non conterrà commenti acidi di nessun tipo. In fondo, gli España Circo Este ci piacciono e tanto anche!



   


Le KreTine hanno avuto modo di conoscervi e vedervi dal vivo un anno fa, in una tappa del Bucatesta Tour. In quell’occasione avete gabbato noi come gli altri presenti fingendovi spagnoli. Non temete una nostra vendetta rilasciandoci quest’intervista (che potrebbe essere usata contro di voi) ? E ci cascano proprio tutti o siamo state tra le poche credulone?

Il progetto España Circo Este è stato fondato in Sud America da Marcelo e da una band di Argentini scapestrati, che a seguito di una serie di peripezie si è trasformata in romagnola. Possiamo quindi cavarcela affermando che la band ha semplicemente imparato l’italiano?


In tre anni di attività in giro per l’Italia e l’Europa avete tenuto oltre 350 concerti, calcando alcuni dei palchi più ambiti (Rivolta, Estragon, Carroponte, Deposito Giordani, Palearizza, Apartaménto Hoffman, Sherwood Festival, S9). Quest’estate aprirete i concerti di grandi nomi della musica internazionale (Manu Chao, Gogol Bordello, Shaggy). Per ragazzi così giovani com’è stato il salto dai palchi di provincia ai grandi festival europei? Vi siete montati la testa o continuate a mantenere i piedi per terra?

Su questi super palchi ci siamo arrivati dopo anni di gavetta e con la testa ben avvitata sulle spalle. Per chi non ha spinte da fuori è l’unico modo per arrivarci. Lo scorso 20 giugno a Monza, insieme a Manu Chao, una volta scesi dal palco la nostra attitudine e mentalità non si è spostata di un centimetro. Abbiamo fame di palchi e montarsi la testa adesso significherebbe semplicemente bruciare il percorso fatto e precludere ogni possibilità di crescita.


A gennaio avete presentato il vostro primo album, La Revoluciòn del’Amor, che segue i precedenti EP Circo Este Ciudad e Bucatesta. Con il nuovo album continua la vostra rivoluzione “tango-punk”? E cosa lo differenzia dai precedenti lavori?

Risposta breve: sì, il tango-punk è più forte che mai negli España Circo Este!
Per chi ancora non ci avesse visto/ascoltato, la parola tango-punk rappresenta l’unione delle nostre influenze: Marcelo viene dalla patchanka e dall’industrial, Jimmy dal metal e dall’elettronica,  Felix dall’indie e rock’n’roll mentre il Señor Missi dalla musica classica. In questo album finalmente abbiamo potuto incidere questa unione di generi così differenti.
Oltre che per il sound, La Revoluciòn del Amor è un indubbiamente un disco più maturo e pensato rispetto ai precedenti. Porta con sé un messaggio importante, che ribadiamo più volte durante i concerti di questo tour, ed invitiamo tutti a venire ad ascoltarlo ed interiorizzarlo.


La forza degli España Circo Este sta però nella dimensione live. Un live “pazzo, colorato e tiratissimo”. Come vivete il rapporto con il pubblico? In genere sarete presi d’assalto dalle ragazze a fine concerto: avete qualche aneddoto al riguardo da raccontare?

Come avrete notato, il nostro live è tutto fuorché introspettivo, cerchiamo continuamente l’interazione con il pubblico e la sua energia è fondamentale per la riuscita di un concerto.
Mi piacerebbe raccontarvi di serate all’insegna del sesso, della droga e del rock’n’roll, ma senza scendere troppo nelle nostre vite private, ti dico solamente che gli España Circo Este hanno una media di figli per componente elevatissima: 0,75 !
Da qui traete le vostre conclusioni…


Per concludere, “il grande perché delle KreTine”: perché vi fingete spagnoli, traendo così in inganno povere sventurate come noi?

La risposta è semplice: il live in spagnolo rappresenta un gioco che funziona e che piace al pubblico. Potrei dirvi che è solo per l’esterofilia italiana, ma il pubblico ha risposto ed interagito molto bene anche all’estero.  

domenica 5 luglio 2015

PREJUDICE CHIEDE, PRIDE RISPONDE

Prejudice: «Come ti chiami?»
Pride: «Pride, piacere di conoscerti?»
Prejudice: «E che ci fai qui a Foggia?»
Pride: «Sono qui per manifestare per i miei diritti…diritti che mi vengono negati e per cui combatto da anni (con risultati scarsi ahimé)…per esempio vorrei sposare il mio compagno, con cui convivo da 5 lunghi anni, metter su famiglia, ma la legge ce lo impedisce»
Prejudice: «Sposare il tuo compagno? Ma due uomini non possono sposarsi…è contro natura! Perché se vuoi metter su famiglia non sposi una donna invece?»
Pride: «Amo un uomo e, con tutto il rispetto per le donne (che adoro!), ho sempre amato uomini e immaginato la mia famiglia con lui»
Prejudice: «Ma che famiglia sareste? Non potreste avere figli…e poi i bambini hanno bisogno di una mamma e un papà…due papà, due mamme, perché? »
Pride: «Perché la famiglia è amore, che siano due papà o due mamme, l’importante è che quei bambini siano amati e crescano felici. Il mio compagno sarebbe un padre perfetto, io anche, i nostri figli sarebbero amati»
Prejudice: «Ma la natura ve lo impedisce. Due uomini non possono procreare. I bambini non si comprano. Tu non sei nato da una donna e hai avuto una madre e un padre? Perché negare questo ad un bambino?»
Pride: «Ho avuto un padre e una madre sì, ma l’amore che loro hanno dato a me, io potrei darlo a mio figlio. A nostro figlio, perché essere buoni genitori non dipende dal sesso. I figli valutano i genitori per quello che hanno dato e insegnato loro, non per l’organo che portano tra le gambe. E poi i bambini non si comprano: si vogliono in due e se il desiderio di famiglia è comune, solido e sano perché non realizzarlo»
Prejudice: «Ma come pensate di educarli questi bambini? Oggi siete qui truccati, mezzi nudi, parrucche in testa e tacchi ai piedi…un bambino sarebbe traviato da questo e non crescerebbe sano…avete mai pensato a quello che si sentirebbe dire dai compagni di scuola? No, non sarebbe sano e giusto!»
Pride: «Una parrucca e un po’ di trucco non pregiudicano la bontà di un genitore. Se anche mio padre si fosse truccato o imparruccato, sarebbe stato comunque un ottimo padre. Dovresti guardare oltre, dietro il trucco ci sono persone, spesso splendide persone e ottimi genitori. E se mai un giorno avessi un figlio (e lo avrò), gli direi di lasciar perdere quei compagni di scuola…sarebbe preso in giro anche se fosse grasso, con le orecchie a sventola, i denti storti, i capelli rossi e le lentiggini…perciò sarebbe sano e giusto, perché la stupidità e l’ignoranza esistono da sempre e sempre esisteranno, l’importante è non farsi condizionare da esse e condurre la propria vita come la si desidera»
Prejudice: «No, non mi convinci! Continuerò a pensarla così…»
Pride: «Ok, ognuno è libero di pensarla come vuole. Ma tu come mai sei qui a Foggia? »
Prejudice: «Per accompagnare mio fratello alla parata! »

Pride: «Ah, ecco…»



giovedì 2 luglio 2015

THE BLACK SPOT

Quando decidiamo di scrivere un post su un gruppo, in genere siamo noi a sceglierlo e a farci avanti per ottenere un’intervista. Non è questo il caso dei The Black Spot, giovane band pugliese, cresciuta nel “musicalmente prolifico” brindisino, che ci ha inviato un po’ di brani per ascoltarli e fornire loro un parere. Premesso che non siamo critici musicali, l’ascolto è stato positivo, per cui abbiamo deciso di dedicare loro un post.
I The Black Spot sono una band in origine pop, salvo poi virare verso un rock alternativo, caratterizzato da suoni vintage e psichedelici, mescolati a sonorità elettroniche. Il gruppo è composto da Dario (chitarra e voce), Bartolo (batteria), Antonio (basso), Carlo (tastiere) e Alessandro (chitarre). A maggio hanno pubblicato il loro primo singolo Balla più di prima (Piccola Bottega Popolare), un invito a far ballare la creatività in un’epoca di crisi creativa universale. Per conoscerli meglio, abbiamo posto loro alcune domande, per cercare di capire cosa è passato per la testa a questi ragazzi per spingerli a contattare Vita da Kretine.




Siete stati il primo gruppo musicale a proporvi a Vita da KreTine per parlare della vostra musica (senza dover subire la nostra consueta azione di stalking). Siete sicuri di aver fatto la scelta giusta?

Se non sarà la scelta giusta, ci pagate una cena!


Presentatevi al nostro pubblico: chi sono i The Black Spot? E perché i nostri lettori dovrebbero ascoltare la vostra musica? Autopromuovetevi!

I The Black Spot nascono nel 2009, esattamente 6 anni fa, ma negli ultimi anni abbiamo iniziato un percorso di riflessione che ci ha portati a sperimentare diversi approcci aprendoci a diverse influenze. Siamo una band a cui piace cambiare, bisogna aspettarsi di tutto da noi.


È uscito da poco il vostro primo singolo “Balla più di prima”, che parla del dramma della crisi creativa universale, per stimolare un maggiore movimento del pensiero. Un tema più semplice no per un singolo d’esordio?

Avete ragione, è un pezzo molto orecchiabile ma abbiamo voluto sposare un tema forte e molto reale, non ci piace parlare di Baci Perugina.


Venite dalla provincia di Brindisi, territorio molto vivo dal punto di vista musicale negli ultimi anni, basti pensare ai Moustache Prawn o ai PLOF. Quali stimoli avete colto per la vostra musica dall’ambiente di provincia? E la provincia vi sta stretta?

La scena musicale della provincia di Brindisi ci ha insegnato ad avere sempre le orecchie aperte, la mente molto elastica e ad assorbire tutti i tipi di musica.
No, la provincia non ci sta stretta, nonostante si è sempre in giro a suonare anche fuori provincia per cercare altri stimoli e nuove conoscenze: casa è sempre casa!


Avete un’intensa attività “live”. Tra un concerto e un altro, pensate magari ad un EP? E avete già qualcosa di pronto nel cassetto che desiderereste pubblicare?

Ci sono delle idee in cantiere, si passa molto tempo in sala prove. Creare un CD/Ep è un lavoro molto impegnativo, non siamo frettolosi, vogliamo prenderci il tempo necessario.


Ultima domanda: vi siete mai sentiti “KreTini” sul palco o nella vita? E secondo voi, può una rockstar essere KreTina?


Essere KreTini può essere una filosofia per affrontare determinate situazioni in maniera istintiva. Forse noi siamo troppo pignoli, dovremmo essere decisamente più KreTini!

lunedì 29 giugno 2015

IL "CUORE SATELLITE" DI PIERPAOLO MANDETTA

Spesso leggo romanzi di autori contemporanei in cui i giovani protagonisti vivono in grandi metropoli e trascorrono le loro giornate tra esclusivi eventi mondani e sessioni sfrenate di shopping. Difficilmente trovo storie più “comuni”, di giovani di provincia, meno glamour magari, ma più sincere. Cuore Satellite di Pierpaolo Mandetta è un esempio di romanzo “sincero”, dove ad essere raccontata è la provincia italiana. Il protagonista, Paolo, è un giovane di 27 anni che vive a Salerno, con un’amica che cucina per lui e un fidanzato che lo ama. Rimanere in provincia, nel suo caso, non è quindi una necessità, ma una scelta. Scelta fatta anche dall’autore del romanzo, che dopo aver frequentato la Scuola Holden di Torino e provato a vivere a Milano e Bologna, è tornato a Paestum, nella provincia campana, fiero di essere un “ragazzo di campagna” come tanti. Un ragazzo di campagna sui generis, che scrive racconti erotici gay e bisex, Aperti di notte, a cui Vita da KreTine ha deciso di dedicare un post. Un’intervista in cui Pierpaolo ci parla del suo nuovo romanzo e non solo, proprio come piace a noi KreTine.






Cuore satellite è la storia di Paolo, un ragazzo che come tanti vive in provincia, ma non per necessità, bensì per scelta. Una “stranezza” in un’epoca in cui i giovani fuggono dalla provincia per dirigersi nelle grandi città. La scelta di Paolo è poi anche la tua scelta: cosa ci fa un giovane scrittore a Paestum? Come trascorre le sue giornate e dove trova gli stimoli per le sue storie?

Fammi prima dire grazie per questa intervista, ne sono davvero onorato. Sì, la mia scelta è stata rimanere qui, in paese, e non è stata facile. Ho sempre invidiato la vita eclettica, divertente e stimolante dei ragazzi di città, mentre in paese mancano cultura, divertimento, quel sesso a domicilio h24. Ho provato più di una volta a trasferirmi prima a Torino, poi a Milano e Bologna, e ne sono uscito sempre depresso. Alla fine ho accettato di essere un ragazzo di campagna che adora starsene per fatti suoi. Le mie giornate son semplici. Lavoro nel bar dei miei, coltivo piante e fiori in cortile, vado in bici per campagne, mangio quantità preoccupanti di pasta e pizza, e scrivo romanzi.


Cuore satellite è anche il racconto dell’omosessualità vissuta nella provincia italiana. Se i giovani fuggono da contesti piccoli e spesso arretrati, la tendenza riguarda ancora di più i giovani omosessuali, che cercano nella grande città la libertà di potersi esprimere. Come vivi la tua omosessualità in provincia? E quali sono gli stereotipi contro cui ti scontri più spesso?

I problemi della provincia cominciano presto per chiunque, quando vuoi limonarti il tuo compagno di classe in camera senza che tua madre lo scopra, ma tanto lo farà. Quando vuoi vestirti come ti pare, ma tuo padre e i suoi amici ti guardano storto. Quando sei il più sensibile e carismatico della scuola e quindi ti chiamano ricchione. Perciò a 18 anni non vedi l’ora di mandare tutti a fanculo e fuggire in una qualsiasi città, in cui nessuno ti conosce e la gente è troppo occupata ad esaurirsi coi mezzi pubblici per poter essere impicciona. Io ho fatto delle scelte strane. Ho vissuto da timido e isolato per sfuggire all’ostilità, rinunciando a molti anni che altrove avrebbero potuto essere felici, per poi capire piano piano che la gente ha paura di quello che nascondi, non di quel che fai alla luce del sole. Quando la gente capisce che fai le cose ordinarie che caratterizzano la vita di chiunque, allora la tua vita conquista un equilibrio, ovunque tu sia.
Con questo romanzo, Cuore satellite, ho voluto creare un personaggio che non avesse particolari problemi a vivere la propria omosessualità in un contesto ristretto come Salerno, ma che anzi riuscisse a vederne gli aspetti positivi, seppur pochi. Giornate placide, vicine che preparano la pasta, la natura intorno, la comicità degli anziani, delle cassiere, dei vicini di casa.


Hai pubblicato una raccolta di racconti erotici gay e bisex, Aperti di notte. Le persone a te più care, penso alla famiglia in primis, hanno letto i racconti? E come hanno reagito?

Rido sempre a pensarci. Beh, no. Tengo i racconti erotici ben lontani dalla famiglia. Mia madre sa che li scrivo. Povera, ormai da me si aspetta di tutto. Mio padre non ne ha idea. Gli amici gay li leggono con piacere. Gli amici etero mi vedono come un pornografo.


In questi giorni sono ancora vive le polemiche post Family Day, in cui si è celebrato un ideale di “famiglia tradizionale” che ormai non esiste più. Questi sono anche i giorni del Pride, con la sua nuova formula itinerante in vari centri italiani. L’Italia si conferma sempre più Paese delle contraddizioni: pensi che un giorni si arriverà a quel sospirato cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno? E vorresti un giorno metter su famiglia e come la immagini nel caso?

Ma certo che si arriverà. Ci siamo già arrivati. Lo viviamo tutti i giorni, anche se i media continuano a far credere che sia tutto ancora in divenire. Le famiglie sono già allargate, divorziate, distrutte, gay, etero, strane. Il bello della normalità è che in ognuna di esse scalpitano amore e dolore, con una madre e un padre, con un’anziana e i suoi gatti, con due padri, con una vedova e i suoi figli, con una coppia di amici rimasti senza parenti. Qualsiasi cosa crei legami è famiglia. E questo spaventa molto gli ignoranti, perché ci vogliono grandissima sensibilità e intelligenza per accettare tutto ciò che è alternativa. L’odio che urla questa (poca e grottesca) gente del FamilyDay è solo il rigurgito terrorizzato di un branco di idioti plagiati dalla Chiesa, aggrappati alla disperazione di non potersi più sentire un po’ privilegiati e al sicuro. Perché ammettere l’amore per tutti non farà che svelare quanto marciume si nasconde nelle tantissime famiglie “tradizionali” italiane, in cui l’ignoranza spinge le donne a fare le schiave, gli uomini ad andare a mignotte convincendosi che non sia vero, i figli a crescere violenti e inquadrati. E loro lo sanno. Non vogliono altro che credersi ancora felici, furiosamente, con l’ausilio di una specie di sagra del patetico e striscioni medievali. Ma noi tutti sappiamo da dove veniamo, e in quante delle nostre famiglie “tradizionali” non c’è stato amore. I diritti civili saranno importanti perché spingeranno le persone a chiedersi davvero, con lucidità, se vogliono una famiglia e se sono pronti a dare amore, invece di crearsene una semplicemente solo perché lei è rimasta incinta a diciotto anni.
Io, dal canto mio, non credo che saprei prendermi cura di un figlio, perciò resto coi miei figliocci alternativi, i miei fiori, a cui do tutto l’amore che posso.


Dopo Cuore satellite hai già pensato ad un nuovo romanzo? Qualche anticipazione per le Kretine curiose…


Sto ricostruendo il mio romanzo di esordio, Vagamente suscettibili, pubblicato da una piccola casa editrice tre anni fa, per poterlo ripubblicare in autunno. Non vedo l’ora, perché sarà ambientato a Bologna, con tre personaggi gay ed etero davvero “KreTini”!